Sinking Island: l’isola della noia

Sinking Island (White Birds, 2007) 

Scrivo questa recensione a freddo, dato che ho finito Sinking Island qualche mese fa. Allora non la buttai giù subito perché, come dire, volevo riflettere su questo attesissimo titolo del genialoide belga Benoit Sokal, autore del pluridecorato Syberia. Ma a distanza di tanto tempo, la mia impressioni, le mie considerazioni sono rimaste le stesse di allora: Sinking Island è un gioco mediocre.

Sia chiaro, Benoit Sokal è bravissimo a creare atmosfere avvincenti e quella di Sinking Island lo è, pur con molti debiti a romanzi come Dieci piccoli indiani e a serie TV come Lost.

Il gioco si apre con un elicottero che sta portando il protagonista, detective Jack Norm, su un’isola delle Maldive di proprietà di un miliardario che vi ha fatto costruire un orribile grattacielo-resort. Norm deve indagare sulla morte dell’uomo, trovato senza vita su una scogliera, sbalzato dalla sua sedia a rotelle, rimasta incastrata nelle rocce. Ovviamente, appena sbarcato Norm, l’isola resta… isolata da una burrasca che rende impossibile qualunque arrivo e qualunque partenza. Ciò permette a Sokal di sviluppare un “classico giallo in luogo ristretto” con l’investigatore e un gruppo di sospettati costretti dagli eventi a una convivenza forzata. Tale espediente ha prodotto capolavori del genere come il già citato Dieci piccoli indiani, ma anche come, sempre di Agatha Cristie, Trappola per topi, e tante storie del leggendario Ellery Queen (ricordo la favolosa Ten Days Wonder). Il fascino è che il lettore resta avvinghiato all’intreccio perché segue da vicino, senza dispersioni, tutti i protagonisti; mentre l’autore, dovendo operare in uno spazio limitato, deve sbizzarrirsi nel creare situazioni al limite del nonsense per attirare i sospetti su questo o quel personaggio (un classico: la corrente che salta durante una cena che riunisce tutti, un colpo di pistola nel buio, l’unica arma del gruppo che sparisce…).

Uno scenario, questo, perfetto per una avventura. Che però il nostro Benoit Sokal ha tremendamente sprecato. Si salva pressochè solo la grafica, anche se i colori non mi convincono del tutto e l’architettura del palazzo è davvero brutta; più che alle Maldive sembra di essere su Marte.

Sia chiaro, le idee buone non mancano, a cominciare dagli “appunti” del detective: il suo “Palmare”, infatti, è molto funzionale e immediato, con estrema chiarezza riassume gli eventi, elenca le prove raccolte, e per ogni personaggio riunisce azioni e frasi salienti. In questo modo abbiamo in ogni momento tutto sotto controllo ed è un bene in un gioco giallo che altrimenti richiederebbe pagine di appunti a penna.

Il fatto è che i personaggi sono clamorosamente stereotipati, sembrano manichini, e agiscono tutti in modo prevedibile. Il gameplay è fin troppo lineare e la difficoltà quasi inesistente perché, in pratica, non esistono enigmi (tranne uno, e pure piuttosto difficile).

Gli unici, veri ostacoli si presentano quando, alla fine di ogni segmento, ossia quando è stato raccolto un certo numero di indizi che ci permettono di fare un passo avanti nella soluzione del caso, il gioco si ferma e ci pone una domanda, del tipo: Qual era il luogo del delitto? Per proseguire, a quel punto, dobbiamo elencare, tramite il Palmare, tutti gli indizi “giusti” che permettono di dare la risposta corretta. Che c’è di male?, direte voi. Il fatto è che spesso, pur conoscendo la risposta esatta, il gioco richiede indizi, tra i tanti raccolti, che hanno ben poco a che vedere con la risposta stessa. Risultato: si finisce per fornire indizi a caso fino a che non si trova la sequenza giusta (il famigerato trial and error).

E neppure la caccia a questi indizi è particolarmente appassionante: basta parlare con tutti, beccare gli hotspot e il gioco è fatto: nessuno metterà alla prova il vostro acume o la vostra capacità di osservazione in alcun modo, come ci si aspetterebbe in un gioco giallo e come accade, ad esempio, per certi versi in Sherlock-The Awakened, dove la ricerca degli indizi è un esercizio interessante e divertente (ma siamo ancora lontani, comunque, da una avventura mystery che davvero simuli l’attività di un detective).

A tutto questo, aggiungete che il doppiaggio italiano sembra fatto da un gruppo di improvvisati e avrete una idea di Sinking Island: un’occasione sprecata. Eppure, Benoit Sokal aveva mezzi, capacità e idee per creare un gioco decisamente migliore. La sensazione è che abbia lavorato di fretta, che abbia “tirato a chiudere” senza troppo amore: colpa del Dio Denaro?

Ps. Il gioco ha anche la funzione “tempo reale” per chi volesse giocarlo in lotta con l’orologio: in questo caso, se non ci si trova al posto giusto nel momento giusto si rischia di vanificare tutto. Ma la sostanza non cambia. E comunque, un gioco giallo del genere è bello affrontarlo come una partita a scacchi, con i ritmi di un’avventura non di uno shoot ‘em up. Ho il sospetto che la funzione “tempo reale” sia stata inserita per tentare di sopperire alle carenze generali.

Pps. Se amate le avventure gialle, comunque sia, dovrete comunque provare questo Sinking Island, vista la penuria di giochi del genere. Ma sapete che cosa vi aspetta.

Francesco Cordella – luglio 2008

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