The Witcher: l’avventura al di là dell’avventura

Aggiornato il giorno 11 Maggio 2020

The Witcher (CdProjekt, 2008).

Lo so, non è una avventura grafica né tantomeno una avventura testuale. Ma è uno dei migliori giochi che abbia mai giocato e la cosa ha stupito me stesso per primo: infatti, da una vita gioco solo avventure, raramente salto il fosso. Stavolta l’ho fatto per una “illuminazione”. Mi trovavo in Belgio, in un megastore, e su un monitor scorrevano le immagini di un guerriero dai capelli lunghi bianchi alle prese con un mostro. Una scena bellissima, d’atmosfera con sensazioni che andavano molto oltre il mero combattimento: vuoi per la musica, per lo sguardo del guerriero, per l’ambientazione, c’era un che di poetico. Così, ho subito chiesto al commesso di che gioco si trattasse: The Witcher, mi ha risposto, come se la mia fosse una domanda scema (forse lo era, però). Pure il titolo m’è subito piaciuto. Tornato in Italia ci ho rimuginato sopra, infine a novembre 2007 l’ho comprato: per la prima volta, ho speso ben volentieri più di quaranta euro per un videogame (considerati i prezzi dei cinema, comunque, è cifra onesta).

Giovanni Riccardi, avventuriero di lungo corso, e Paolo Vece, altro avventuriero di lungo corso, erano presenti la sera in cui, come un adolescente, ero alle prese con l’installazione. E Giovanni e Paolo sono stati i primi a provarlo. Ma girava lento, così ho chiesto loro se avrei fatto meglio a procurarmi più RAM o una scheda grafica nuova. Due giorni dopo avevo installato 2 giga di RAM (roba da fare girare insieme cento avventure…), per la scheda ho aspettato.

Sono dunque partito con il gioco che, a parte qualche passaggio, nonostante una scheda grafica non appropriata, girava in modo accettabile. Ed è stata una esperienza straordinaria che ha mescolato le atmosfere di una avventura grafica, di una testuale, di una “esplorativa”, di una investigativa, di un role play game, più una giusta dose di azione “intelligente”:

Lo scenario è medievale. Nei panni di Geralt Di Rivia, un Witcher, ossia un uomo-guerriero-mago geneticamente modificato, dobbiamo dare la caccia a una banda di assassini. In mezzo c’è l’amore (il sesso), l’odio, la pietà. Insomma: la trama è notevole, del resto si ispira alle storie di uno scrittore fantasy polacco da noi sconosciuto, Andrzej Sapkowski. Ed è appassionante, molto appassionante, considerato che non sono affatto un estimatore del genere fantasy. Però The Witcher è qualcosa di più: una sorta di Blade Runner medievale. Sì, perché Geralt, il protagonista, ha un’anima.

Si comincia nella residenza dei Witcher, si prosegue per villaggi, paludi, cimiteri, città, si stringono amicizie, si vivono relazioni (stabili o fugaci che siano): il tutto disegnato e implementato benissimo. E non c’è dispersione: ogni livello è composto da qualche missione principale (trovare un oggetto, parlare con qualcuno, uccidere un mostro) più alcune missioni secondarie, ma è tutto ben definito e non si rischia di finire in un mare magnum. L’obiettivo è sempre lì, chiaro. In più c’è l’alchimia: il protagonista, per acquisire nuove facoltà, più forza, per dare potere alle armi, deve mescolare vari ingredienti che trova nel corso dell’avventura.

Insomma è stato un piacere scoprire un gioco moderno, dopo anni di avventure che più o meno offrono sempre lo stesso design: The Witcher permette ampie esplorazioni in ambienti disegnati benissimo, ha grande fluidità di movimento, dialoghi lunghi il giusto.

Certo, non ci sono enigmi come li intendiamo noi avventurieri: l’enigma è per lo più trovare la persona giusta, il luogo giusto. Il fulcro, inutile nasconderlo, è il combattimento. Ma i livelli sono diversi. Esempio, con l’occhio dell’avventuriero: l’entrare in un angolo scuro di una palude, con musica giusta ed effetti sonori e appropriati, può essere associato alla scoperta di una nuova, misteriosa locazione in una avventura; e il combattimento “spezza” quella monotonia che darebbe un gioco solo esplorativo. E così, proseguire nella storia, scoprire nuovi risvolti offre, se guardiamo il tutto sempre con l’occhio dell’avventuriero, la stessa sensazione che offre la risoluzione di alcuni enigmi in una avventura.

Certo, un minimo di attrazione per il combattimento dovete averla. Ma fidatevi io non sono un giocatore d’azione, o di FPS,o altro, e ci ho provato gusto, anche perché non si tratta di premere tasti a caso: il sistema di combattimento è un sistema intelligente, che richiede un certo ritmo nella pressione dei tasti, i giusti spostamenti e determinate strategie. E oltre tutto, non esistono, a livello di gioco average, combattimenti particolarmente difficili, dunque si prosegue più o meno senza troppi intoppi (infatti, a molti giocatori d’azione questo sistema non è piaciuto).

Sempre con l’occhio dell’avventuriero, mi sono chiesto: che cosa possiamo trarre da The Witcher a beneficio di una avventura testuale. La caratterizzazione dei personaggi, sicuramente: ce ne sono molti di interessanti, che è un piacere “scoprire”. E poi, i dialoghi: raramente ho visto dialoghi così in una avventura testuale. Ma soprattutto mi hanno colpito i personaggi non giocanti: hanno una vita propria piuttosto realistica, vanno a colazione, a dormire, parlano tra loro, cambiano atteggiamento in base alla situazione.

Sia chiaro: The Witcher è un gioco che costa milioni di euro (due o tre, credo), non possiamo paragonarlo a uno dei nostri prodotti amatoriali, ma non è sempre detto che titoli di questa portata offrano tanto.

A volte mi sembrava di essere in Zork, altre in The Pawn, altre in The Wizard and The Princess. Insomma: The Witcher ha avuto in merito di risvegliare ancora di più l’avventuriero che c’è in me. E poi, è soddisfacente: offre una sessantina di ore di gioco, un finale adeguato. Io che l’ho iniziato a novembre l’ho finito a febbraio, giocando diverse sere a settimana, senza mai, e dico mai, annoiarmi. E ho scritto questa recensione ora, a distanza di due mesi: si vede che molto mi è rimasto.

Fidatevi: è un gioco che può piacere anche agli avventurieri classici, anche a chi, come me, non ama il fantasy. E fa riflettere: dà emozioni, molte emozioni, è attraente, fa venire voglia di giocarlo una seconda volta… avete mai provato tutte queste sensazioni in una avventura testuale? (le ultime emozioni vicini a tale portata io le ho provato con Anchorhead di Mike Gentry, ricordo che mi tremavano le mani battendo sulla tastiera in certi momenti tesi…)

No, non ho saltato il fosso, sia chiaro. Perché una avventura testuale è una esperienza unica, ma certo nel mondo, là fuori, c’è anche altro. Roba inimmaginabile vent’anni fa quando tutti provavamo il massimo della gioia giocando Zork. Cosa che, fortunatamente, succede anche oggi. Al di là di The Witcher.

Francesco Cordella (aprile 2008).

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