Come si costruisce una galassia?

di Marco Innocenti

Stavo andando in montagna con la mia famiglia (mio figlio aveva 2 anni, mi capiva a malapena, mia moglie un multiplo di 2 che per rispetto non vado a formulare) quando iniziai uno sproloquio sui viaggi intergalattici. Stavo spiegando come le distanze astronomiche siano incolmabili, allo stato attuale, quando lo sproloquio si trasformò in una narrazione.

Sono uno che tende a trasformare qualsiasi cosa in un racconto.

Oltre a questo, sono uno che si diletta di giochi testuali da quando aveva otto anni. Ne avevo sempre voluto scrivere uno e, come spesso accade, ne avevo iniziati mille e portati a termine zero.

Chissà che questa volta…

Andromeda Awakening, il mio primo gioco completo, vide la luce tre ore prima della deadline per la consegna dei candidati alla IFComp 2010. Non ci potevo quasi credere: non solo ero riuscito a finire un’avventura testuale, il mio primo lavoro di narrativa interattiva, ma potevo anche partecipare alla più importante competizione mondiale sul tema, una cosa che solo pochi giorni prima sembrava un solletico, come quando immagini come sarebbe portare a cena la tua eroina cinematografica.

Come se non bastasse, il mio gioco era un capolavoro. Si sarebbe innalzato al di sopra delle avventure tradizionali, presentando una storia coinvolgente, un mistero sottaciuto per millenni e un finale da brividi che nemmeno il Sesto Senso. Il tutto condito da enigmi moderni e vecchio stampo assieme, ritmica da thriller e CENTOMILA BATTUTE IN INGLESE, spazi compresi.

Awakening si classificò diciassettesimo su 38 partecipanti, garantendomi il rango di “mah” come autore di Interactive Fiction. Considerando che, sotto di me, erano finiti un paio di troll e autori che intenzionalmente presentavano roba per provocazione, i miei sogni di gloria potevano considerarsi da eiettare. Mi ero buttato in un mondo che non conoscevo con tutta l’ingenuità di un ragazzino e mi avevano mangiato gli squali. Tutto come da copione: game over, man! Game over.

Poi, successe qualcosa.

Le recensioni fioccarono e, tra le tante, qualcuna iniziò a commentare in modo positivo la trama, nonché la scrittura che (seppur nel regno della purple prose, ovvero di quella verbosità convoluta e carica di aggettivi che oggi trova posto solo negli scaffali delle librerie d’essai), col suo suonare decisamente “off” aggiungeva atmosfera alla storia. Il mio buon inglese macchiato dai tempi e dai modi della scrittura italiana aveva fatto di più che il mio intento narrativo.

Sicché, decisi di indagare.

Per molti mesi, studiando come se mi dovessi laureare, cercai di sapere tutto sullo stato dell’arte della IF. Presi spunto dai vincitori, soprattutto, ma in larga parte dai teorici, quelli che con la prosopopea sul mezzo ci avevano costruito delle professioni.

Come Adrian Veidt in Watchmen, feci un passo indietro e osservai la vista d’insieme.

Quello che trovai – e lo dico senza tema di apparire ridicolo – mi ha consentito il salto quantistico più impensabile attorno a tutto ciò che riguarda me stesso. Come uomo, come graphic designer, come narratore, come insegnante e come padre.

Mancavano sei mesi alla IFComp 2011. Awakening aveva deluso (anche se aveva una sua nicchia di appassionati: un ragazzo inglese parlò di mitopoiesi, come se fossi improvvisamente diventato Omero) e aveva consegnato una storia senza possibilità di sequel. Che fare allora? Provarci di nuovo? Oppure, come sarebbe stato sensato, vedere quella luce in fondo al tunnel per quello che era, ovvero un treno che puntava verso di me.

Devo ammettere che se il motore non fosse stato ancora caldo, tutto quello che è accaduto dopo non avrebbe avuto luogo.

A tenere accesa la miccia creativa furono i bei commenti di quelli a cui Awakening era piaciuto, ma anche e soprattutto i dialoghi fitti che avevo intavolato con alcuni tra i più importanti e maturi autori di IF del mondo. Emily Short in modo particolare, con la sua – terribile – bocciatura prima e con la passione che mi trasmise dopo, riuscì a inebriarmi di un concetto che è ormai talmente solidificato dentro di me da poter essere accumunato a un fatto.

La scrittura, qualsiasi sia il mezzo, non la si affronta come un hobby. È una cosa seria, drammatica, e come tale va perseguita. Anche Stephen King, uno che per ragioni che non starò a discutere qui è semplicemente inarrivabile, una volta disse: «non affrontate mai la pagina vuota con leggerezza.»

E così feci.

Awakening avrebbe avuto un seguito; avrei partecipato di nuovo alla IFComp, ma stavolta non come il ragazzino che ero quel settembre 2010 ma come l’uomo che ero diventato ad aprile 2011.

Andromeda Apocalypse, il gioco che non doveva esistere, vinse la IFComp quello stesso anno, superando scrittori “veri” e pubblicati come Jim Munroe e Christopher Huang e lanciando una fanbase che avrebbe generato negli anni successivi almeno altri quattro giochi brevi nel canone e (teaser!) un’opera grossa che è attualmente in lavorazione e che vi prometto (se sapete l’inglese) will rock you off your chair.

Ma come si fa a scrivere un gioco vincente? E cosa significa?

La parte più importante di questo racconto è già contenuta nelle righe qui sopra: serve dialogo. Serve la capacità di mettersi in gioco, ascoltare e cercare di migliorarsi. Confrontandosi coi migliori, ovviamente, ma anche sentendo l’opinione di chi un’opera del genere non avrà mai i mezzi o la voglia di produrre ma che è, di fatto, il tuo lettore ideale. Per me è fondamentale tenere la porta aperta: arroccarsi su delle posizioni, che siano tradizionaliste o d’avanguardia, ha sempre poco senso. Così come, per me, ha ormai poco senso andare avanti per nomenclature. Che significa narrativa interattiva? E che significa avventura testuale? È un gioco o un racconto? E se lo faccio in Twine è IF oppure no? E cosa sono le CYOA? E se ci metto la grafica, quale dio offendo? La mia unica regola al riguardo, in un mondo che non accetta regole, è: ma chi se ne frega. Come qualcuno ha già fatto notare, ci sono giochi belli e giochi brutti; cacce al tesoro divertenti e roba da spararsi nei coglioni; racconti intimisti che farebbero sbadigliare mia nonna e puttanate trash con milioni di cultisti. Se poi questi sono IF, CY, AB, RM o PdM… ma chi se ne frega. Il trucco, per principio, è uno solo: se vuoi fare un buon lavoro (non ottimo, per carità: quelli sono di solito di una noia mortale) non devi affrontare la pagina vuota con leggerezza. Tutto qui.

Quindi: dialogo. Ricerca. Speranza. Mettersi in ascolto. Non tanto per captare i desiderata dell’audience, per carità: o si scrive per se stessi o è meglio fare festa. Piuttosto, per indagare, sognare, trovare nuove vie. Entrare in sintonia col proprio lavoro. Spesso ho fatto da beta-tester o, semplicemente, ho dialogato con un amico attorno alla sua opera: lo scopo non è mai stato tanto quello di trovare dei bug (c’è gente molto più brava e paziente di me per questo lavoro fondamentale) quando quello di trovare i temi nascosti nelle pieghe della narrativa, testarne la ritmica, enfatizzare i punti che restavano più difficili da cogliere, in generale: accrescere l’esperienza del giocatore. Questo vale per lavori fortemente narrativi come Apocalypse o per sistemi ludici più o meno complessi che ruotano intorno a dinamiche piuttosto che a una storia. Non c’è distinzione tra le varie nuance, purché ci si ricordi di fare le cose per bene.

In seconda istanza, potrebbe servire pianificazione. Awakening era stato scritto e programmato di getto, una stanza alla volta. Gli enigmi nascevano per esigenze diverse da quelle di trama e spesso per imparare a usare Inform. Così, tante cose non funzionavano e, anche se certi di questi li considero ancora buone idee, il pot pourri sapeva di poco. Le Grandi Idee di Awakening nascevano dalla scrittura “romantica”, questo lo ammetto (ho grossa difficoltà a pensare in grande tutto assieme, produco sempre un capitolo alla volta), ma anche tutti i suoi peggiori difetti.

Così, Apocalypse partiva da un disegno più preciso. Sempre piuttosto nebuloso – ripeto: non riuscirei mai a finire un lavoro in cui tutto fosse deciso prima di mettermi a programmare o a scrivere – ma comunque un disegno: aveva un’idea generale di base (che Awakening ha visto apparire solo quando ero ben oltre la metà della sua costruzione), una specie di plot molto abbozzato e alcune grandi sequenze cinematografiche di cui ancora mi vanto in modo estremamente infantile. Gli enigmi, questi orribili nemici di chi li vede come ostacoli alla storia, erano ben integrati nel sistema e avevano il triplice scopo di intrattenere, sorprendere e frazionare la trama in blocchi comprensibili. Infine: il gioco aveva dei temi, ciascuno dei quali affrontato in un diverso capitolo (anche se Apocalypse non è propriamente diviso in sezioni con copertine alla Tarantino, è innegabile che i tre atti teatrali ci siano tutti), che prendevano vita dal racconto, dai flashback interattivi e dalle dinamiche ludiche.

Ultima cosa necessaria, e qui ahimè devo peccare di immodestia, è che uno un’idea ce l’abbia e che questa sia supportata da un’abbondante dose di talento. Ovvero: se anche hai scoperto il bosone di Higgs, potrebbe non essere sufficiente affinché questo ti renda vincente. Senza voler scoraggiare nessuno, ma le parti migliori dei miei due giochi di punta (ho scritto anche altro, ma più per onanismo che per un obiettivo) sono venute fuori così, mentre guardavo la finestra o mangiavo un gelato o mi assopivo dopo pranzo. Altre perfino nel momento esatto in cui le scrivevo, alla faccia di tutta la pianificazione del mondo.

Ora, affinché questo non porti a pensare che, come dice il vecchio adagio, nessuna strategia potrà mai sostituire una sana botta di culo, è il caso che racconti anche – per chi ha retto fino a qui mi pare un doveroso ossequio – quanto produrre una cosa come Awakening o Apocalypse sia faticoso in termini di energia, tempo e anima.

Iniziamo col dire che il codice di queste avventure ammonta a oltre 280mila battute ciascuna. Due bei romanzi di 400 pagine, insomma. Il tempo di gioco totale, al netto della più alta frustrazione registrata, è in media di 3 ore. Cioè: solo per programmarli ci ho messo sei mesi a pezzo e medioman può vedere la scritta *** YOU ARE AMONG THE STARS *** in centottanta minuti. Ci vuole un bell’impegno, sì, ma soprattutto ci vuole tanta fede. Provate a immaginare il mio semestre full-immersion (o quasi) dietro ad Awakening per poi leggere la recensione della più famosa autrice ed esperta di IF al mondo che dice di averlo abbandonato alla seconda stanza perché non riusciva a seguirlo. Certo, avrei potuto concentrarmi su un’opera più immediata (il consiglio di tutti è sempre “start small“, ovvero inizia con qualcosa di piccolo, mentre io avevo dato il via alla mia breve carriera di autore di avventure testuali con un colosso da 50 stanze e oltre 450 oggetti tra utensili e scenografia, ognuno dei quali prevedeva una risposta unica a decine di azioni diverse), ma quello avevo fatto e avrei pure voluto mettermi a piangere, a quel punto.

(Pensate che circa il 65% di quello che ho scritto è ignorato da quasi la totalità dei giocatori e che un 10% è passato inosservato A TUTTI: un achievement di Apocalypse è irrisolto da ormai otto anni.)

Oltre alla quantità di testo – che dopo i beta continui fatti nel corso di tre mesi era quasi raddoppiato: la IF è l’unica arte narrativa in cui l’editing porta ad aggiungere invece che a eliminare – c’è da far funzionare le cose. Sulle meccaniche narrative ho già detto e potrei parlare per anni, quindi pensiamo agli enigmi. Per principio, io sono uno che se deve fare il fetch the object mi scasso le palle e, soprattutto, in modo molto immaturo, mi vergogno un po’: mi viene in mente Emanuele Pirella che diceva che quando uno usa i bambini in pubblicità è perché ha poca voglia di lavorare e si accontenta del trucco più facile. Ci sono anche quelli, va da sé: non ho la tecnica né il talento per esprimere troppe complicazioni da orologiaio. Ma di certo mi ricordo più volentieri quelli dove storia e puzzle si fondono. (Un esempio è la lezione di lingua di Monarch in Apocalypse – non dico di più perché anche questo sarebbe un grosso spoiler – o la action sequence da blockbuster del finale). Come si programma un computer? Come si immagina un dialogo continuo con un erede del mitico Floyd di Planetfall? Quante volte devi perdere il sonno per inventare e trascrivere ogni commento, ogni esclamazione, ogni dialogo con un essere che è ovunque e da nessuna parte allo stesso tempo? Come si codifica, difatti, una cosa del genere? Il mio Floyd mi ha impegnato per un mese. Il gioco avrebbe avuto la stessa storia senza di lui? Lo stesso impatto emotivo? No. Non si può perciò parlare di tempo perso, ma alla fine le dita facevano male lo stesso.

E dunque, quando sono riuscito a scrivere la fatidica ultima frase (*** You are among the stars *** è il modo che hanno i giochi Andromeda di dire “hai vinto”) mi sono accorto che non avevo finito affatto. E quindi sono passato dapprima a creare uno hint system tipo invisiclue interno al gioco e poi a inserire l’ultima novità nel campo delle IF, gli achievements, obiettivi, tradotti a pie’ pari dalla consuetudine dei giochi mobile dei nostri tempi.

Alla fine, Apocalypse è il gioco perfetto? Direi di no. Non mi permetto. È il gioco perfetto per me? Di certo: infatti non ho mai chiuso la trilogia perché non saprei come superare questa impresa nemmeno se lo facessi di lavoro.

È il modo migliore di fare un gioco testuale? No, e di certo un’affermazione del genere non ha senso: Zork resta la vetta di tutte le AT, così come su quella vetta ci sono Anchorhead, Spider and Web, Counterfeit Monkey, Leather Goddesses of Phobos e Photopia. Tutta roba enormemente eterogenea ma che ha alla base un assunto comune: l’autore ci ha creduto. L’autore ci ha provato. L’autore si è impegnato a non buttare lì sul foglio la prima cosa tanto per riempire della carta (io vi farei vedere quante AT tedesche o inglesi vengono create anche oggi che, stimolanti la nostalgia per il retro-gaming, non sono che repliche delle repliche delle prime, atroci messe in scena videoludiche – tutta roba che puoi aprire, concederti un sorriso e chiudere immantinente perché nulla hanno da offrire e che eppure suscitano grandi applausi a ogni nuova uscita).

L’autore, in poche parole, non si è mai accontentato. Né la Short quando si è messa a smantellare la lingua inglese per omaggiare il Tee-remover; né Zarf quando si è inventato un sistema alchemico (che gli è valso anche una baracca di soldi, buon per lui); né Gentry quando ha ripreso il mito di Lovecraft e ci ha costruito il motivo per cui una parte di noi è ancora qui (Anchorhead è, per molti, la AT definitiva: una storia da gustare – sebbene non proprio originale –, decine di enigmi vecchio stile e una prosa bellissima, ovvero il ponte tra gioco e libro che si dice non possa esistere). Con loro, decine, centinaia, migliaia di autori vecchi e nuovi ogni giorno provano a mettersi in gioco e a creare qualcosa che abbia un valore. Che sia un puzzle o che sia un’analisi tagliente sulle difficoltà di essere una minoranza, nessuno di loro la prende sotto gamba o lo fa per passare il tempo.

In essenza, per me: quello che distingue il brutto dal bello non sta nella forma che gli dai, ma nel perché.

La parte più difficile di scrivere Apocalypse, in fondo, è stata smettere di scriverlo. Se elimino dall’equazione le emicranie che mi ha dato aggirare le risposte di base del dialogo di Inform e attendere oltre un mese e mezzo per sapere se, stavolta, la gente aveva apprezzato, decidere che la mia opera non aveva più bisogno di crescere è stata un’impresa.

Ci ho messo sei mesi prima, quasi quotidianamente, e un anno dopo, per aggiustare il tiro e solleticare alcuni fan. Diciotto mesi in cui ho pensato, scritto, riscritto e codificato finché ogni tassello nella mia mente non è stato al posto giusto.

Ho inventato una galassia (la mitopoiesi, secondo Paul Lee, mio estimatore) e una storia che abbraccia tremila anni.

Avrei potuto anche chiuderla in sei locazioni – una grotta, un prato e il solito vecchio castello – e avrei potuto optare per una forma più immediata di gioco, risparmiandomi un sacco di dolore. Mi sarei divertito ugualmente? Avrei avuto lo stesso successo? Non lo so e non sono sicuro che il valore di un’opera risieda nella sua meccanica intrinseca o di genere.

Quello che so è che, anche se così fosse stato, non avrei affrontato la pagina bianca con leggerezza.

———

Le avventure di Marco Innocenti (tutte in Inglese) sono giocabili online o scaricabili gratuitamente sul sito www.andromedalegacy.com. Marco è inoltre co-autore del kolossal lovecraftiano Cragne Manor, disponibile su ifdb.tads.org. Sta provando a convertire la saga di Andromeda in una serie di romanzi: per ora, dice, può solo sperare di riuscire a finire il primo.

Giochi da leggere o storie da giocare?

Aggiornato il giorno 11 Maggio 2020

Marco Vallarino, uno dei nostri autori di avventure più prolifici, firma di giochi entrati nella storia italiana del genere, come Enigma, dopo l’uscita del suo ultimo lavoro, Luci della finanza, è tornato con questo articolo sulla vecchia dicotomia: text adventure o narrativa interattiva (interactive fiction)?

Adventureland di Scott Adams

Nel dibattito (annosissimo) si ha la tendenza a giudicare la narrativa interattiva più profonda e più prestigiosa rispetto alle text adventure. Questo perché le text adventure sono – semplificando – “cacce al tesoro” che puntano sugli enigmi o – in passato – alla “caccia alla parola”. La narrativa interattiva, invece, lascia – o sembra lasciare – in secondo piano gli enigmi – a beneficio della storia.

Ci ho riflettuto molto, negli anni ho anche cambiato più volte opinione, e alla fine credo di poter dire che questa differenza non esiste. Semplicemente, ci sono avventure belle e avventure brutte.

In Zork, la leggendaria Zork, il protagonista è un blank hero, un pupazzo senza background e senza emozioni, eppure Zork è un capolavoro perché ha enigmi sensazionali, un mondo ampio e strutturato, un’atmosfera di tensione che traspare in ogni parola. Alla fine, è anche una grande storia.

L’autore di avventure, anche di una text adventure, anche di una caccia al tesoro, ha il dovere di emozionare o di stupire: con un colpo di scena (vedi il favoloso Make it good di Jon Ingold), con un enigma strabiliante (vedi la meravigliosa “T-removing machine” di Leather Goddesses of Phobos). Alla fine, chi finisce l’avventura non deve esultare solo perché ha vinto, ma anche perché forse l’avventura gli ha lasciato qualcosa.

In fondo, l’autore di avventure non sta programmando Space Invaders.

E intendiamoci subito su che cosa significa storia. Storia non significa necessariamente trama. Storia significa anche buoni personaggi, approfonditi, dialoghi non prevedibili, descrizioni di stanze mai viste, enigmi al passo con i tempi.

E’ vero quello che dice Marco: “Ognuno di noi, se ha una buona storia in mente, può scriverla così com’è, senza doverci per forza aggiungere elementi ludici o interattivi per tentare di trasformarla in quello che non è: un videogioco”.

E’ vero, non deve per forza aggiungerci elementi ludici. Ma è anche vero che se ha una buona storia e riesce ad aggiungerci buoni elementi ludici finisce per creare una buona avventura.

Prendete il vostro romanzo preferito. Pensate a come sarebbe se fosse un’avventura ben fatta: vi piacerebbe o no?

Oppure provate Make it good di Jon Ingold: ha più elementi ludici di tante text adventure, ma ha anche una storia degna di un grande romanziere.

In tutto questo, c’è un aspetto fondamentale: è una questione di strumento. Lo strumento-avventura. Uno strumento che offre possibilità non realizzabili nei libri: l’interazione, le cut-scenes cinematografiche, i colori, il privilegio di esaminare un personaggio, per conoscerlo meglio, e ignorarne un altro che magari ci sta antipatico, mentre in un libro siamo costretti a conoscerli tutti e due.

Se abbiamo un strumento così potente è un peccato non sfruttarlo al massimo e utilizzarlo solo per le sequenze “prendi chiave”/”apri porta” o “dai soldi”/”ricevi cammello”. E’ uno strumento che va oltre il gioco in sé e per sé. E’ uno strumento formidabile per uno scrittore che ha la fortuna di poterlo usare (e quanti grandi scrittori potrebbero imparare Inform? pochi, ve lo dico io): gli permette di presentare le sue storie e di dare emozioni in un modo diverso, unico.

Per questo, non condivido la distinzione di Marco tra lettore e giocatore. Chi si mette davanti a una avventura, infatti, è semplicemente tutte e due le cose: un’entita unica, un lettore-giocatore. Certo, se è pigro vorrà un gioco veloce e facile, ma se anche il più pigro lo nutri con emozioni, personaggi un po’ più profondi, enigmi diversi dal solito, vedrai che quel pigrone alla fine ti ringrazierà.

Oltre tutto, nel tempo c’è stata una evoluzione. Siamo passati dai giochi di Scott Adams, cacce al tesoro basic, ad avventure come Photopia, storia struggente, che usa lo strumento in modo innovativo per l’epoca ma pecca per mancanza di enigmi, fino alle perfette vie di mezzo come Anchorhead.

L’autore di avventure ha il dovere di esplorare questo strumento, di cercare nuove strade, come fa ogni giorno Emily Short.

In conclusione, anche una text adventure, una caccia al tesoro, può essere una grande avventura. Del resto, tutte le text adventure che si rispettino hanno almeno un elemento straordinario: un personaggio, un enigma, una situazione.

Prendete la leggendaria Avventura nel castello di Colombini. Ricordate anche solo la prima scena? Stupefacente, originalissima per l’epoca, non sfigurerebbe in una ottima sceneggiatura. E ricordate il tono, la scrittura scanzonata, la rottura della quarta parete, gli enigmi fuori dagli schemi?

Ebbene, quel capolavoro era una caccia al tesoro. Scritta trentotto anni fa.

Back to Aztec Tomb

Aggiornato il giorno 11 Maggio 2020

Il segreto di Aztec Tomb è nel titolo, dicevamo.

Il segreto della sua popolarità: perché un gioco che non aveva nulla per diventare un classico invece lo è diventato? Anche l’amico Marco Innocenti ha detto che è stata la sua prima avventura. Perché? Merito della distribuzione in Italia dell’epoca, tra pirateria e negozi di computer che vendevano cassette? Non credo, perché Aztec Tomb ha sfondato praticamente in tutto il mondo delle avventure.

Il segreto è nel titolo. E nell’immagine di copertina della cassetta.

(spoiler alert: chi volesse giocarlo non dovrebbe proseguire perché praticamente svelo il finale)

Aztec Tomb. Ebbene, in quel 1983 a sentire il titolo e a vedere l’immagine della cassetta ti aspetti di esplorare una antica tomba piena di trappole, alle prese con maledizioni che affondano le radici nella notte dei tempi. Insomma: sei pronto a diventare Indiana Jones che solo due anni prima, nel 1981, era già diventato leggendario.

E invece no. Inizi in una stanza da pranzo. L’unica stanza da pranzo mai esistita collegata al soffitto con una scala di ferro… Ma proprio quella scala ti fa pensare a qualcosa di misterioso, a un ingresso verso un altro mondo. E invece no. Sali la scala e capiti in una normalissima soffitta, la soffitta più spoglia del mondo, tra l’altro.

E per tutto il gioco vai avanti così… sei convinto di trovare la tomba da un momento all’altro – per cominciare finalmente la tua avventura – ma non sarà così.

Quando troverai la tomba, il gioco sarà finito. Neanche la vedrai.

Il segreto di Aztec Tomb è il suo grande inganno, che ha attirato (e gabbato) milioni di giocatori. Era previsto un seguito, ma quello che esiste è imbarazzante, e ormai era troppo tardi: la vena era esaurita.

Come in un film di Hitchcock, Aztec Tomb si regge su un elemento fondamentale in una buona storia: la suspense. La sensazione che accada qualcosa da un momento all’altro, cosa molto più forte dell’accadimento vero e proprio, che può anche non avvenire mai.

Il segreto è nel titolo: cercare una tomba che non troverai mai.

Il segreto di Aztec Tomb, classico delle text adventure.

Il segreto di Aztec Tomb

Aggiornato il giorno 11 Maggio 2020

La schermata di apertura di Aztec Tomb. Notare l’errore di grammatica: DINNING room.

Aztec Tomb non ha nulla per essere considerato un classico delle avventure testuali.

Nel 1983, quando fu pubblicato, il mercato era in piena età dell’oro: da anni, esistevano i giochi di Scott Adams, conosciuti in tutto il mondo; iniziavano a spopolare i giochi Infocom, destinati a diventare leggendari; e c’erano giochi come Death in the Caribbean, considerati gioielli.

Aztec Tomb non aveva nulla per diventare un classico. Parser, grafica, storia, longevità: tutto era in linea con lo standard dell’epoca per giochi simili. Niente di eccezionale, anzi: Aztec Tomb presentava pure diversi errori di grammatica e ortografia (vedi sopra).

Eppure, Aztec Tomb è diventato un classico. Lo conoscono – e lo hanno giocato – tutti gli avventurieri “vecchio stile” che si rispettino.

Perché? Qual è il segreto di Aztec Tomb?

Il titolo. Il segreto è nel titolo. E nell’immagine di copertina che pubblichiamo qui sotto…

LO AVETE SCOPERTO?
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IF COMP 2017 Reviews: The Fifth Sunday

Aggiornato il giorno 11 Maggio 2020

The Fifth Sunday, gioco scritto da un autore (asiatico?) che si firma Tom Broccoli,  è un mystery con tante potenzialità. Scrittura asciutta, essenziale, ma molto evocativa. Musica ed effetti sonori in linea con l’atmosfera cupa. Situazione alla Agatha Christie: sette persone che hanno risposto a un invito su un forum Internet si ritrovano bloccate in una villa. C’è un primo omicidio, poi un secondo e tutti i sopravvissuti sono sospettati. Con queste premesse, uno si aspetta un’avventura appassionante.

Invece, i problemi sono tanti. Interazione pari allo zero. Molti errori di grammatica e molta sciatteria lessicale. Il testo va letto a blocchi, in un quarto d’ora si arriva a un finale. Per arrivare a un altro finale, bisogna cominciare daccapo e rileggere quasi lo stesso testo, blocco dopo blocco. E’ tutto molto macchinoso. Per risolvere il gioco, bisogna ripartire dall’inizio e, al primo bivio, scegliere l’opzione “So chi è l’assassino” e indicarlo. Insomma, è impossibile concludere il gioco al primo tentativo. E gli altri finali sono tutti tronchi, non spiegano quasi nulla. I personaggi paiono interessanti, ma sono appena tratteggiati non c’è l’approfondimento psicologico che un mystery richiederebbe. Il testo si legge a fatica a causa del contrasto con il colore dello sfondo.

E’ tutto così bizzarro tanto che sono arrivato a pensare che fosse tutto sarcastico, come se l’autore volesse prendersi gioco del genere mystery e di noi giocatori.

Ma in tutto questo, che può sembrare un disastro, qualcosa brilla… ho una sensazione: l’autore ha grande talento. Chi si nasconde dietro il nome di Tom Broccoli?

No crime si perfect, but the best crime can be nearly perfect.


The Fifth Sunday, written by an (Asian?) author who calls himself Tom Broccoli, is a murder mystery with a lot of potentialities. The writing is concise and sober, but very evocative. The music and the sound effects are in line with the gloomy atmosphere. It offers an Agatha Christie Situation: Seven people who responded to an invitation on an Internet forum get stuck in a villa. There is a first murder, then a second and everyone is a suspect. With such a premise, we are ready for an exciting adventure.

But the game is flawed. There is no interaction and too many grammatical errors. The text needs to be read in blocks, in fifteen minutes you get to an ending, but to get to another one, you have to start over and read almost the same text, block after block. It’s all very tricky. To solve the game, you have to start from the beginning, choose the option, “I know who the killer is” and shoot your name. In short, it is impossible to finish the game at the first attempt. And all the other endings are blunt, obscure, they do not explain anything. The characters seem interesting, but they’re not fleshed out, there is no that psychological deepening that a mystery would require. The background color makes the text almost unreadable.

It is all so bizarre that I came to think that it was all sarcastic, as if the author wanted to joke around the mystery genre and fool the player.

But in all this, which may seem like a disaster, something shines … I have a feeling: the author has great talent. Who is hiding behind the name of Tom Broccoli?

No crime si perfect, but the best crime can be nearly perfect.

IF COMP 2017 Reviews: Etude Circular

Aggiornato il giorno 11 Maggio 2020

Ecco come Adam Black, l’autore, presenta se stesso su Twitter:

Performance Artist / Antichrist. Antilabelist / postnationalist / anti-ideology. All mimesis public domain. (CC0 1.0) Fuck. Tha. Police.

Insomma, un Anticristo che ce l’ha con le forze dell’ordine.

Ecco il suo tweet “fissato”.

Qualcosa come: “Fuori dalle palle”.

Ed ecco la parte migliore della sua storia che non è interattiva e che si legge in cinque minuti:

“What?” is the question
you’re best to ask
if you don’t know where to start.
As in, “What the fuck?”
“What is this shit?”
and “What is my task?”
“What is this they ask of me?”
and “What am I to do?”
and “What is the way of being
that might manage to see me through?”

Questa roba non fa per me.


Notice how Adam Black, the author, introduces himself on Twitter:

Performance Artist / Antichrist. Antilabelist / postnationalist / anti-ideology. All mimesis public domain. (CC0 1.0) Fuck. Tha. Police.

Here’s his pinned tweet:

Here are the best lines of his story, a five-minute non-interactive read.

“What?” is the question
you’re best to ask
if you don’t know where to start.
As in, “What the fuck?”
“What is this shit?”
and “What is my task?”
“What is this they ask of me?”
and “What am I to do?”
and “What is the way of being
that might manage to see me through?”

This stuff is not for me. Seriously.

IF COMP 2017 Reviews: The Adventure of Esmeralda and Ruby on the Magical Island

Aggiornato il giorno 11 Maggio 2020

Una breve favola per bambini scritta in Twine. Nessun colpo di scena, nessuna interazione. Brutti errori grammaticali dimostrano che l’autore non è madrelingua. Bei disegni.

A short tale for children in Twine. No twists, no interaction. Grammatical glitches tell us that the author is not a native English speaker. Nice drawings.

IF COM 2017 Reviews: Dancing With Fear

Ed eccoci a una avventura testuale vecchio stampo con il parser. In Dancing With Fear impersoniamo Salomé Velez, una vedette degli anni Cinquanta che diventa una spia in nome della rivoluzione.

La storia si svolge tra gli anni Quaranta e Cinquanta nei Caraibi colonizzati dagli europei, in una atmosfera che unisce magia a inquietudine per le tensioni sociali. Si percepisce che l’autore, Victor Ojuel, uno scrittore e game designer spagnolo trapiantato in Inghilterra, ha ambizioni da sceneggiatore: il gioco è costruito a blocchi di scene, di volta in volta bisogna risolvere una situazione per procedere. La storia è interessante e gli enigmi, piuttosto semplici (e vecchio stile), aiutano a seguirla bene. È chiaro che l’autore ha fatto ricerche sull’epoca e il suo lavoro è apprezzabile,

La scrittura è buona, i dialoghi sono ben scritti, anche se a volte risultano un po’ prevedibili e troppo lunghi. Forse sarebbe stato meglio asciugarli e renderli più brillanti. In certi casi, per proseguire, bisogna parlare più volte di seguito con la stessa persona: non bastava una?

In compenso, sarebbe servito qualche dettaglio in più nelle descrizioni, che in certi casi sembrano troppo generiche. Esempio:

Library
The walls are covered with bookcases and fine paintings. A magnificent pool table occupies the centre of the room, and there is a modern record player on a side table.
Tutto molto generico: “bookcases”, “fine paintings”, “modern record player”.
La descrizione di Salomé, invece, è buona (Ojuel descrive meglio i personaggi piuttosto che i luoghi e le cose):
Ay caramba, if it isn’t Salomé Vélez, “la diosa de la selva”! The vanished great ex-vedette of the Enjoyado Club, in her latest comeback as not-that-great third-line corista at the Casino del Ritmo! Some would say you’re a bit faded, but that’s just bitter ex-lovers. Or yourself, on a bad day.

La sceneggiatura a volte zoppica.

SPOILER
Nella scena della sala da ballo, dopo che Claudio viene arrestato, è improbabile che non sospettino anche Salomé, che è arrivata con lui. E poi, perché la storia esige che torni in macchina prima di cercare la cassaforte? Non c’è un buon motivo per questo: dal punto di vista di Salomé, Claudio doveva avere tutto il necessario per cercare la cassaforte, a meno che non sia un totale sprovveduto, e quindi lei non dovrebbe avere bisogno di nulla per completare la missione (invece il gioco dice “vediamo se Claudio ha lasciato qualcosa in auto per te”).
FINE SPOILER

C’è poi qualche difetto di programmazione.

SPOILER
Quando la compagna di cella ci chiede il “segnale segreto”, è chiarissimo quel che dobbiamo fare, ma è difficile farlo capire al gioco e incappiamo in un vetusto guess-the-verb.
Se Salomé va a cambiarsi in camerino e torna al tavolo, nessuno si accorge che ha un altro abito, nessuno le fa un complimento, il che è molto improbabile.
FINE SPOILER

Tutto sommato, comunque, il gioco mi è piaciuto.

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Here’s an old-fashioned text adventure with parser. In Dancing With Fear we are Salomé Velez, a vedette in the Fifties that becomes a spy for the sake of revolution.

It takes place between the 1940s and 1960s in the Caribbean, colonized by Europeans, in an atmosphere mixing magic and anxiety for social tensions. The author, Victor Ojuel, a Spanish writer and game designer living in England, has screenwriting talents: the game is built into blocks of scenes, every time it is necessary to solve a situation to proceed. The story is interesting and the puzzles, rather simple (and old-fashioned), help to follow it well. It is clear that the author has been researching the history and his work is appreciable,

The writing is good, dialogues are well written, though sometimes they are a bit on-the-nose, verbose. Ojuel has the skills to improve them and make them more brilliant and terse. In some cases, to advance in the story, you have to talk to the same person several times in succession: just one was not enough?

On the other hand, it would have served some more details in the descriptions, which in some cases are too generic. Example:

Library
The walls are covered with bookcases and fine paintings. A magnificent pool table occupies the centre of the room, and there is a modern record player on a side table.
The description of Salomé, instead, is good (Ojuel describes the characters better rather than things and places)
Ay caramba, if it isn’t Salomé Vélez, “la diosa de la selva”! The vanished great ex-vedette of the Enjoyado Club, in her latest comeback as not-that-great third-line corista at the Casino del Ritmo! Some would say you’re a bit faded, but that’s just bitter ex-lovers. Or yourself, on a bad day.

The script, sometimes, has problems.

SPOILER
In the ballroom scene, after Claudio is arrested, it’s unlikely that nobody suspects Salomé, who came there with him. And then, why does the story require you to reach the car before looking for the safe? There is no good reason for that: from Salomé’s point of view, Claudio must have everything he needed to look for the safe, unless he’s a total fool, so she should not need anything to complete the mission (yet, the game says, “Let’s see if Claudio left something in the car for you”).
END SPOILER

Some programming flaws…

SPOILER
When the cellmate asks for the “secret signal”, it is very clear what we have to do, but it is difficult to tell it to the game. So, we smash against a very old-fashioned “guess-the-verb” situation.
If Salomé goes to her dressing room and returns to the table, no one realizes that she has another dress, no one makes a compliment, which is very unlikely.
END SPOILER

All in all, however,  I liked this game.

IF COMP 2017 Reviews: 10pm

Sappiamo bene che, negli ultimi anni, le avventure testuali non sono più avventure testuali in senso classico, con descrizioni delle stanze e parser, ma qualcos’altro: libri game, storie con parole da cliccare. Nelle avventure testuali old style, “interattivo” significava dare al nostro personaggio ordini ben precisi, con verbi e complementi oggetti, e si aveva l’illusione di comandarlo. Ora, “interattivo” significa, in certi casi, scegliere una strada cliccando una parola, Quella vecchia illusione di essere il dominus, il burattinaio è un po’ svanita. In compenso, le storie possono essere lette/giocate più facilmente sui telefonini e avere, potenzialmente, un pubblico più ampio, estendendosi a chi non vuole o non ha voglia di imparare il “linguaggio” parser.

Questo 10pm va ancora un po’ oltre. In poche parole, mi è sembrato un gioco digitale della Settimana Enigmistica: il protagonista è un uccello e noi dobbiamo imparare il suo linguaggio fatto di simboli e collocare poi questi simboli in caselle per comunicare con il mondo. L’idea è affascinante e dà un nuovo risvolto alla parola “interattivo”. Ma non fa per me. E la scrittura, inspiegabilmente, non ha apostrofi.


In the last years, text adventures became something else: they are no longer classic text adventures with room descriptions and parser. They are Choose-Your-Own-Adventure book games and stories with words to click to explore a world. In old style text adventures, the word “interactive” meant giving our character precise orders, with verbs and noun, and we had the illusion of governing him. Nowadays, “interactive” means, in some cases, choosing a road by clicking a word. That old illusion of being a dominus, a puppet master, is a little vanished. Yet, stories can be read / played more easily on mobile phones and potentially have a wider audience, extending to anyone who does not want or does not like to learn the rules of a parser.

This game, 10pm, goes a bit further. In a nutshell, it seemed to me a digital game of a puzzle magazine: the protagonist is a bird and we must learn its symbolic language and then place these symbols in boxes to communicate with the world. The idea is fascinating and gives a new meaning to the word “interactive”. But it is not for me. And the writing, inexplicably, has no apostrophes.

IF COMP 2017 Reviews: Eat Me

Chandler Groover è un autore prolifico che crea storie interattive accurate e ben scritte. Gli piace sperimentare: la sua Toby’s Nose, ad esempio, aveva come protagonista il cane di Sherlock Holmes e il gioco era tutto costruito attorno a una sola azione: annusare. Bisognava solo annusare, non era necessario fare altro per arrivare alla fine.

Lo stesso succede in Eat Me: bisogna solo mangiare, le altre azioni sono inutili. È un fantasy in cui il protagonista è un bambino che finisce in un castello dove tutto è commestibile. C’è cibo ovunque, ma non solo: anche gli oggetti e le persone si possono mangiare. La scrittura è fluida, il gioco è come sempre ben programmato, ed è divertente andare in giro a mangiare tutto. Ma, premesso che il grottesco non è il mio genere, alla fine mi ha dato l’impressione di essere un ottimo esercizio di stile un po’ ripetitivo. Se fin dall’inizio avessi avuto ben chiaro un obiettivo, un traguardo, forse lo avrei apprezzato di più. Invece, dopo due ore mi sono anche un po’ annoiato.

Ps. Certo, ora tutte le storie in gara devono fare i conti con le grandi emozioni che mi ha dato Will Not Let Me Go… e non sarà facile.

>x me
Your most important feature, and the reason that you’re here, dear, is your mouth. All children are just mouths, of course, begging to be fed until they’re bigger. Nothing else need be said on that account, except perhaps that your mouth is already big for a child. It is your personality. Forget your other attributes. You ate them when you first arrived, which is why you were invited.


Chandler Groover is a prolific author who creates accurate and well-written interactive stories. He likes to find new angles: in Toby’s Nose, for example, we are Sherlock Holmes’ dog and the game is all built around a single action: sniffing. All you had to do was to sniff, you did not have to do anything else to get to the end.

Same happens in Eat Me: you just have to eat, any other action is useless. It is a fantasy game where the protagonist is a child who ends up in a castle where everything is edible. There is food anywhere but also objects, furniture and people can be eaten. The writing is fluid, the game is well programmed as always, and it’s fun to go around eating everything. Assuming that I don’t like grotesque stuff, this is a good proof of concept that it’s not for me. If I had a clear goal in mind from the start, I might have liked it more. Instead, after two hours I was a bit bored.

Ps. Of course, now all the stories I’m gonna review have to deal with the incredible emotions that Will Not Let Me Go gave me… and it will not be easy.

>x me
Your most important feature, and the reason that you’re here, dear, is your mouth. All children are just mouths, of course, begging to be fed until they’re bigger. Nothing else need be said on that account, except perhaps that your mouth is already big for a child. It is your personality. Forget your other attributes. You ate them when you first arrived, which is why you were invited.