Archivio mensile:Aprile 2008

Dammi una trama stupida, grazie!

“La tua trama, per essere seguita dalla gente, deve essere dannatamente stupida”. Con questo motto Ken Levine, cofondatore di 2kBoston, sviluppatore del gioco Bioshock, ha cominciato il suo discorso alla Game Developer Conference che si è tenuta a marzo a San Francisco.
Il suo, come riporta un bel resoconto su tomsgames.com (che ho rintracciato via Emily Short), è un provocatorio discorso sul tema narrativa e videogames, che parte da questo assunto: “Narratori, a nessun giocatore di videogame interessano le vostre stupide storie”.

Su questo sito si è più volte discusso del rapporto tra storie ed enigmi. Ora le parole di Levine, che scrive giochi per mestiere, offrono nuovi spunti. Al di là di molti discorsi teorici, infatti, è sempre bene ascoltare chi adatta il suo modo di lavorare alle esigenze del pubblico, rispondendo a logiche commerciali prima che artistiche (è il denaro, bellezza).

Dunque, Levine, esagerando un po’ e lasciandosi andare al paradosso (vizietto e trucchetto di tutti i conferenzieri), demolisce il valore narrativo nei videogame. Levine spiega che, nel corso della realizzazione di Bioshock, ha rinunciato senza pensarci due volte a dodici personaggi, a gran parte del plot e ha ridotto l’arco narrativo da diverse decadi a… un giorno. Per compensare queste mancanze, ha invece voluto ampliare la “scenografia”.

«Più roba c’è, più si confonde il giocatore», dice Levine «Il nostro obiettivo era semplificare, semplificare, semplificare».

Insomma: per lui, una storia troppo profonda allontana, se non spaventa, il giocatore. E poiché l’obiettivo, che risponde ovviamente a logiche commerciali, è attrarre le masse, se la sensazione è di “pesantezza”, meglio prendere un’accetta e tagliare pagine e pagine di copione in nome dell’audience. Con un escamotage, presente in Bioshock: la possibilità di approfondire certi aspetti della storia del tutto facoltativa e ininfluente ai fini della partita.

Levine fa un esempio molto azzeccato: «Se fermate Indiana Jones in qualunque momento de I predatori dell’Arca Perduta e gli chiedete: “Che cosa stai facendo?”, lui risponderà sempre: “Cerco l’Arca Perduta!”». Semplicità, dunque. Con qualche trucchetto, rubato agli sceneggiatori delle serie TV americane, per dare una “profondità” che magari non c’è. Levine fa l’esempio del serial Lost in cui puntata dopo puntata nascono nuove domande sui misteri dell’isola che, per la maggior parte, rimangono senza risposta. «E’ più divertente ed efficace offrire domande ai giocatori piuttosto che obbligarli a cercare le risposte!». Un concetto di una, scusate, paraculaggine geniale. In effetti, in Lost le domande danno atmosfera… più delle risposte!

A seguire, il passaggio chiave. Per Levine, in sostanza, la storia va adattata alla giocabilità. Ed è proprio su questo punto che Emily Short, nota autrice di narrativa interattiva, è saltata dalla sedia e, in un commento al pezzo di tomsgames.com, ha protestato: eh no, mio caro, narrativa e gioco devono procedere di pari passo. Giusto, Emily. Ma è anche vero che, fatte le dovute differenze tra un videogame d’azione come Bioshock e un’avventura testuale, c’è chi potrebbe dire che in un videogame (pure in una avventura testuale) si può prediligere il gioco in sé e per sé alla storia. L’autore italiano Marco Vallarino, ad esempio, credo sia su questa linea di pensiero: più tesori da scoprire, più enigmi, meno narrativa, grazie.

E’ un punto di vista.

Per chiudere, le tre regole del game designer (no storyteller…) di Levine:
1) Rispetta il pubblico. Non obbligare il pubblico a seguire la tua storia, ma rendila solo “digeribile” a tutti.
2) Il mistero è tuo amico. Fai affidamento sulle domande senza risposta.
3) Aiuta il giocatore. Dagli la possibilità di godersi il gioco o la storia nel modo che più gli aggrada.

Parafrasando Levine, la conclusione brutale potrebbe essere : se tu, game designer, farai bene il tuo lavoro, il giocatore potrà anche sciropparsi la tua storia all’interno del gioco (a patto che non sia troppo lunga e complicata, eh).

Zork nel cyberspazio

Spulciando l’archivio del quotidiano la Repubblica, è saltato fuori un articolo di Furio Colombo del novembre 1995 intitolato “Ho trovato Dante nel Cyberspazio”, in cui si parla di… Zork.
Ecco il passo per noi interessante:

“Il poeta americano Robert Pinsky (celebre traduttore dell' Inferno dantesco) ritiene che "velocità e memoria creino una inestricabile affinità fra poesia e computer". L' intuizione di Pinsky serve per accostarci alla domanda: qual è il "genio" ovvero il senso specifico di questo mezzo espressivo – il computer – rispetto ad altre forme di rappresentazione della realtà (cinema) di comunicazione (televisione) di espressione diretta e personale (scrittura)? Scrive Pinsky: "Io qui mi riferisco alla natura della macchina, al suo essenziale piacere di gioco con le parole, alla nozione di passaggio segreto.

Non tanto tempo fa fra i primi frequentatori del computer, anonimi autori avevano cominciato a programmare storie. Si trattava di brevi tratti narrativi in cui ciascun autore seguiva l' altro nel completare la incompletabile composizione. La struttura era quella del racconto gotico, con enigmi, draghi, spade, torce, trabocchetti. Usando un certo codice sulla tastiera, giocatori lontani tra loro e l' uno all' altro sconosciuti potevano entrare nella narrazione". Questo gioco ha preceduto e preparato il più spettacolare successo di uso delle parole come divertimento nel computer, il famoso Zork.

Al principio di Zork il giocatore si trova in una piccola casa vuota. Può uscire soltanto usando la sua tastiera. Ma ecco la sorpresa. Dopo molti tentativi, il giocatore abile trova la chiave per discendere in un tunnel. Quel tunnel lo conduce nell' immensa rete del mondo di Zork: stanze concentriche, reticolati di sottopassaggi, terrazze e corridoi. E' la mappa di un "interno gigantesco. In questo senso", scrive Pinsky "il computer odora di anima umana. E' un passaggio segreto da qualcosa a qualcosa". Racconta che quando gli è stato commissionato un testo-avventura per computer, la prima cosa che i programmatori gli hanno insegnato è il rapporto fra scene (che si svolgono nel tempo) e stanze (che si situano nello spazio).

In un programma del cyberspazio una scena si trasforma fatalmente in una stanza. "Quando mi sono accinto al mio lavoro mi sono accorto dell' influenza che aveva su di me la parola ' circuito' . La mia struttura narrativa, una volta entrata nel computer, è diventata una serie di passaggi circolari organizzati in forma labirintica".

The Witcher: un’illuminazione

Lo so, non è una avventura grafica né tantomeno una avventura testuale. Ma The Witcher è uno dei migliori giochi che abbia mai giocato e la cosa ha stupito me stesso per primo: infatti, da una vita gioco solo avventure, raramente salto il fosso. Stavolta l'ho fatto e non me ne sono pentito. Ho giocato The Witcher con l'occhio dell'avventuriero "testuale": leggi la recensione

Nuove, vecchie frontiere

Nella bella intervista di torredifuoco a Enrico Colombini, pubblicata sull’interessante “speciale” di SPAG dedicato alle avventure italiane, c’è una frase che mi ha particolarmente colpito.

Quando Enrico, parlando dei moderni sistemi o linguaggi per la realizzazione di avventure, dice che molto spesso «non c’è alcuna relazione fra la complessità del world-model e il divertimento del giocatore. Per esempio, se puoi guardare sotto un oggetto e dietro un oggetto, allora devi guardare sotto tutti gli oggetti e dietro tutti gli oggetti del gioco, il che è estremamente noioso».

Nelle avventure grafiche, invece, le cose stanno diversamente: si possono manipolare soltanto pochissimi oggetti in ogni stanza, scelti dagli autori. E nessuno grida allo scandalo, come accade invece quando, nelle testuali, l’autore dimentica di rendere esaminabile quel “granello di polvere” che compare nella descrizione della stanza. Nelle grafiche ci sono stanze e stanze bellissime a vedersi, piene di oggetti, ma prive di hotspot.

E non è vero che nelle testuali è realmente necessario descrivere tutto perché non c’è grafica: se scrivo letto potrebbe anche bastare. Che cosa mi aggiunge, dopo un “>ESAMINA LETTO”, una descrizione tipo: “E’ un normalissimo letto”? Nulla. Meglio allora sarebbe non inserirla proprio quella descrizione.

Ma non si può. Perché, ormai, nell’immaginario collettivo, un’avventura testuale che non consideri manipolabili oggetti della descrizione, e ogni minimo granello di polvere, dà inevitabilmente un senso di sciatteria.

Enrico Colombini ha sempre predicato la “bellezza della semplicità”. In effetti, è più semplice, più divertente, più immediato il “metodo” avventura grafica: esamino e manipolo solo quello che mi serve, più o meno.

Un approccio del genere dà velocità, azione.

Del resto, siamo pur sempre alle prese con un gioco e se l’interazione è più “spedita” non può che essere un bene. Certo, questo potrebbe rendere più semplici gli enigmi perché si capisce subito quali sono gli oggetti “utili”, ma non è detto: un enigma davvero buono non necessita di simili escamotage.

Detto ciò, mi chiedo se davvero la nuova frontiera possa quella dell’avventura con molti oggetti visibili e pochi esaminabili: risulterebbe bizzarro, no?

Di certo, però, giochi così renderebbero più facile la vita agli autori, che spendono più tempo a controllare le azioni “dovute” che a concentrarsi sulla trama. Infatti, come lasciava intendere Enrico a SPAG, spesso il world model è troppo inutilmente ampio e prevede troppe azioni che finiscono solo per allungare la brodaglia: “guarda sotto”, “guarda dietro”, “cerca”…

In conclusione, mi chiedo: ma che cosa accadrebbe se qualcuno, oggi, programmasse un gioco con bellissime descrizioni, bellissima trama, fantastici enigmi, ma solo con oggetti visibili, hotspot come nelle avventure grafiche (e come nelle testuali antiche, stile Scott Adams)?

Se quello che conta è la trama, che farsene di tanti oggetti inutili? La trama, infatti, per me è tutto, insieme alla buona scrittura, in una avventura testuale. E quando Roberto Grassi si stupisce, sempre su SPAG, che Beyond non abbia avuto il successo che merita, viene da chiedersi se non sia tutta colpa della trama poco originale, dei personaggi stereotipati e, soprattutto, di una scrittura di livello medio/basso (come ho già scritto nella mia recensione) che non rende onore a certi altri pregi del gioco, non a caso sul podio della IF Comp.

Ricordo, ad esempio, i giochi di Bonaventura. pochi oggetti esaminabili, ma fascino ovunque. E un gioco così costruito di certo risulta anche più digeribile, meno prolisso, finanche più divertente e aperto a un pubblico decisamente più vasto, pure occasionale.

E’ questa vecchia strada la nuova frontiera della narrativa interattiva?